Se le emozioni sono quello che cerchiamo su un campo da football, allora forse abbiamo trovato quello che stavamo cercando. Sabato scorso, 29 aprile, a San Giorgio Canavese, è andata in scena una partita da ricordare. A far numero non è stato tanto il punteggio (24-0 per i Rams), quanto la voglia di andarselo a guadagnare e mantenerlo.
I Mastiffs hanno giocato al massimo, non hanno mai abbassato la guardia né tantomeno ridotto l’intensità di gioco, facendo sudare ogni yard. Sono una squadra che ha mostrato un inserimento nel tessuto sociale davvero importante, la presenza delle numerose istituzioni ne era testimonianza – uno sport che esce dal campo e si prende cura del territorio. Un avversario decisamente meritevole di grande rispetto.
Quello che però è impossibile da far passare sotto silenzio è la determinazione della squadra di Paolo Crosti. Sulla defense c’è poco da dire, se non che incontro dopo incontro si stanno confermando per la diga verde che sono. Questa volta, la end zone dei Rams è rimasta inviolata per tutti e quattro i quarti. C’è poco da dire significa che le azioni, i fatti, sono stati più che eloquenti.
Per quanto riguarda l’attacco, se nei primi due quarti è stato leggermente distratto – per dirla con un eufemismo -, dopo l’intervallo si è decisamente ripreso e ha voluto dimostrare al suo pubblico, ai suoi coach, ai suoi compagni della defense di meritare quella maglia bianco-verde che significa così tanto, che vuole diventare un simbolo, un vero e proprio distintivo, per chi la porta, come a dire: «Faccio parte dei Rams e questa appartenenza trascende la tecnica o il peso sulle punte, è un modo di affrontare le sfide, gli impegni, le responsabilità quotidiane».
‘Big’ continua a batter duro su questo punto: quali emozioni ci siamo portati a casa? Perché lo stiamo facendo? Qui sta – per dirla con Lacan, psicanalista francese della metà del Novecento – un punto del desiderio, che non può essere schiacciato su un bisogno biologico, primario, istintuale, una pulsione, ma è qualcosa che caratterizza specificatamente l’essere dell’uomo, avendo come suo oggetto il desiderio dell’altro, cioè l’avere un posto nel desiderio dell’altro. Il desiderio è inteso da Lacan come voto, non un elemento caotico e capriccioso, quanto l’elemento ordinatore della nostra esistenza, una vocazione che orienta e guida la nostra esistenza. Ecco la giustificazione di ogni sforzo. Quando tradiamo la vocazione del nostro desiderio, allora lì ci ‘ammaliamo’. Non è qualcosa da domare, ma qualcosa che fa avvenire il soggetto, venire all’essere, solo laddove è in grado di venire in contatto con il suo proprio desiderio. Come mettere insieme responsabilità e desiderio, una forza che non decido ma mi decide? una forza che non governo, ma mi governa? La responsabilità del soggetto sta nel farsene qualcosa di questa forza ‘desiderante’, metterla creativamente all’opera. All’opposto, il tradimento di questa spinta è l’ignoranza, il non volerne sapere.
Giacomo Andrea Minazzi
Ufficio Stampa Rams Milano