di Pasquale “Pas” De Filippo
Il football è bello giocarlo; ciò non toglie che chi lo gioca e lo gestisce spesso si lasci prendere dalla voglia di sistemarlo, riformarlo, rinnovarlo o traghettarlo verso un’organizzazione più efficiente (sempre dal proprio punto di vista, naturalmente). Si può dire che ciò è fisiologicamente normale: il football, se pur praticato da trent’anni, ha inanellato fallimenti, cattivi esempi e semplicismo, rimanendo così ancora disciplina giovane e dunque bisognante di un’azione interna che la stabilizzi. Tutti noi ci troviamo proprio in anni di sperimentazione di iniziative volte a copiare qualche buon esempio oltre frontiera o adattando esperienze di successo osservate in altri sport già presenti sul territorio.
Uno dei più controversi dibattiti è imperniato sul tema “Tante Squadre, Poche Squadre”; non appena sui blog o nei social compare un nuovo logo, un casco con livree inedite e le immancabili diciture “Coming soon” o “Stay Tuned”, ecco apparire tra i commenti:
“un’altra?”, “ancora?”, “ecco, ci litigheremo i giocatori”.
Molti reputano che una diffusa pratica della disciplina ne danneggi la qualità e livello inoltre essendo pochi i praticanti, genererebbe un deficit nei roster di società vicine. Ovviamente i sostenitori di queste tesi non sono stolti o chiusi, esprimono semplicemente osservazioni basate sulle esperienze passate: costoro non sono così sprovveduti da non sapere che più squadre ci sono e più è facile organizzare partite, più ragazzi giocano a football, più eccellenze possono nascere ma il comprensibile dissenso nasce dalla rassegnazione, di ogni italiano, alla masaniella abitudine di proponenti di idee che iniziando con motivazioni collettive, raggiunti i personali scopi, terminano i progetti nell’incompletezza; come dargli torto, dunque?
In verità il football si dovrebbe davvero poter praticare in tutti i comuni, anzi in tutti i rioni, in tutte le piccole comunità che contano cinquemila abitanti. Questo perché il nostro sport fa bene, insegna la vita, concede il riscatto sociale e costruisce la collaborazione. Purtroppo mancano risorse umane, o meglio, sono assenti investimenti economici di istituzioni o privati su persone che si prendano la briga di andare presso scuole, oratori, centri di aggregazione per insegnare questo sport. Il problema è sempre quello:
“io ci andrei ma devo anche lavorare per mantenermi e come faccio ad insegnare il football se devo lavorare in ditta?”
Attualmente tutto è affidato all’iniziativa di volontari che saltando anche ore di lavoro, scelgono di diffondere questa disciplina motivati oltre che dalla passione per lo sport anche da una sorta di dovere civico.
Come si esce da tutto ciò? I soldi vanno dove c’è popolarità. Più una materia è conosciuta, più persone se ne interessano e ci spendono qualcosa. Ci vuole più diffusione. I più semplicisti invocano a mancanze federali ma credo che l’esame di coscienza dovrebbe iniziare proprio dagli stessi che il football lo vivono tutti i giorni: coach, assistenti, dirigenti, arbitri e presidenti. L’alibi è sempre la mancanza di soldi mentre invece mancano progetti comunitari: troppe volte l’azione della singola società sportiva è votata ad un progetto targato con il nome della società a beneficio della società stessa; forse quando decidiamo di diffondere il football dovremmo ragionare in senso globale: insegnare il football americano e non lo sport praticato dai Pinco Pallino American Football Team.
In pratica si tratta di investire a lungo termine: diffondo questo sport affinché nasca un’iniziativa spontanea di quel territorio ove sono andato a seminare e se dovesse nascere una realtà, un giorno, quei giocatori potrebbero scegliere anche di venir a giocare nella mia società.
Sembra complicato ma non lo è, per esempio: Io alleno gli ormai consolidati “Ornitorinchi” nel comune di Bianchino di sopra e decido di andare ad insegnare il flag e poi il football nell’oratorio del piccolo comune limitrofo di Bianchino di sotto; da quell’esperienza, il don decide di far nascere i “Porcellini d’india” facendosi aiutare a costituire una realtà proprio da colui che ha portato lì la disciplina. Seguendo questo piccolo canovaccio, ci troveremmo in pochi anni con molte squadre; più ce ne sono, più son vicine, più sarà economico giocare, più ragazzi lo praticheranno, più iscritti federali ci saranno, più peso politico avrebbe la nostra disciplina, più visibilità, più investimenti e magari, un giorno lontano, lontano, qualcuno potrà anche in Italia, vivere di football.
Troppo ambizioso? Forse! Ma è insolito che questa affermazione venga da chi pratica uno sport dove s’insegna che “non vince chi è più forte ma chi ci crede di più” … io ci credo!
Foto Dario Fumagalli