di Pasquale “Pas” De Filippo
Come tutti gli adolescenti, COSO, era in quell’età ricca di problemi esistenziali; il suo problema poi, l’obesità, gli generava quel tipico stato d’animo che lo faceva sentire un po’ diverso dagli altri: non alto, ingombrante, goffo nei movimenti e lento nell’andatura.
A scuola, l’ora di ginnastica per lui era un dramma anche se non lo dava a vedere. Nella consueta partitella di calcio, i capitani, a turno, sceglievano i compagni di squadra e l’ultimo a rimanere era sempre lui: COSO. Il suo ruolo era predefinito: la porta. La mancanza di preparazione atletica e la difficoltà di movimento non gli permettevano grandi performance e quando l’attaccante avversario sferrava il tiro micidiale, COSO, cadeva indietro e la palla entrava in goal! Il cannoniere esultava con i compagni ma la squadra di COSO era tutta contro di lui:
«ma non sei buono nemmeno in porta, Ciccione!»
COSO rimaneva affranto, vergognandosi di tutto quel grasso e della sua goffaggine. I pensieri negativi si accalcavano in testa: nessuna ragazza, incapacità a fare attività fisica, difficoltà a trovar vestiti ed un’immagine che non piaceva. La mamma, a casa, lo attendeva e come al solito, quando lo vedeva in quello stato, nel benevolo intento di volerlo vedere più felice, gli preparava la merenda preferita: qualcosa di dolce, grasso e appagante.
COSO viveva la sua vita così; ma un giorno riflettè:
«Devo fare qualcosa; devo dare una svolta»
Decise fermamente di voler fare sport. Ne parlò con i genitori. Il papà, comprendendo, anche se poco fiducioso, lo portò al campo della vicina società di calcio (forse in un gioco di squadra si sarebbe notato meno). COSO, determinato, partecipò al suo primo allenamento.
Passarono tre settimane e COSO, se pur convinto, percepiva la sua inferiorità rispetto ai compagni; soprattutto l’allenatore non perdeva occasione di sottolinearlo. La società sportiva si accingeva al campionato e dopo un discorso con tutti gli atleti, il mister, prese in disparte COSO per dargli un consiglio: «vedi COSO, forse il calcio non fa per te, in questo sport ci vogliono delle attitudini particolari e non è da tutti; potresti provare col nuoto».
COSO, fortemente amareggiato, si sentì un essere inferiore, i pensieri si fecero cupi e quelle che all’inizio erano solo riflessioni su se stesso ora si tramutarono in odio verso gli altri; immaginava il ghigno di scherno sul viso dei ragazzi, avrebbe voluto picchiarli tutti ma ritenendosi incapace anche di aggredire per la sua lentezza, l’unica possibilità era produrgli sofferenza: «se la facessi finita lasciando un bel biglietto, spiegando quanto male mi hanno fatto, li farei vivere per sempre col senso di colpa … vorrei proprio vedere che faccia farebbero». Un pensiero malato, senza razionalità, guidato solo dal dolore interiore.
L’indomani, nei corridoi della scuola, venne avvicinato da un ragazzo:
«hey COSO, hai mai pensato di giocare a football?»
… «ma sei scemo? Voi mi ammazzate» rispose lui. Il giovane, incalzando: «ma dai, vieni a provare, vedrai che non ti succede niente».
E così, una sera di autunno, COSO, si recò al campo per il suo primo allenamento. Il coach lo accolse bene e dopo il riscaldamento lo provò come Centro. Tutto si consumò rapidamente. Il coach, fuori dagli spogliatoi, lo fermò:
«COSO, sei stato in gamba oggi, complimenti, ti aspetto per il prossimo allenamento».
Pensò: «Ma dice a me? Parla di me? Io sono stato in gamba?»
COSO incredulo e felice, decise di capirci di più e di informarsi, voleva giocare a Football.
Gli anni passarono e COSO era ormai un giocatore affermato, gli imbarazzi della gioventù si erano dissolti. Ormai era un uomo ed aveva imparato le regole dell’alimentazione ed i principi dell’essere atleta.
Lo sport faceva parte integrante della sua vita, sapeva spiegare la sua disciplina sia tecnicamente che sotto il profilo atletico. Riteneva che i giocatori di football avessero spiccate doti cognitive e profondi sentimenti di abnegazione, fratellanza e spirito di appartenenza.
Da poco si era dato all’allenamento, era in attesa di seguire i corsi ma veniva coinvolto in qualità di assistente.
Una sera giunge un adolescente che chiese di potersi allenare: il giovane era gracilino, sguardo sempre rivolto verso il terreno, occhiali spessi, voce fioca. Lo accolse COSO: “Ciao, come ti chiami?”; la risposta giunse farfugliata e bassa: “FINO”. “COME HAI DETTOOO? GRIDAAA! Questo è football!”. FINO ci riprovò ed il risultato fu pressoché identico. COSO, spazientito lo spinse verso gli altri, intimandogli di correre.
COSO era molto ferreo, il football essendo disciplina, non consentiva debolezze. Dal centro campo gridava le istruzioni e sottolineava le inefficienze di alcuni; FINO era tra questi.
FINO si impegnava, ce la metteva tutta ma i palloni gli sfuggivano dalle mani e il suo atteggiamento così schivo non lo aiutava ad emergere.
COSO era sempre lì, pronto ad imprecare ad ogni sbaglio:
«Sei un chiodo! Non ce la fai nemmeno a stare in piedi! allora?! Riesci?! Forza! Di cosa hai paura?! Muoviti!»
L’allenamento finì e FINO se pur abbattuto, era motivato a continuare, stanco di esser preso in giro dai compagni per il suo aspetto fisico.
Passarono tre settimane e FINO era ancora sul campo, convinto e deciso, tuttavia percepiva la sua inferiorità rispetto ai compagni e soprattutto, coach COSO, non perdeva occasione di sottolinearne il divario atletico. La società sportiva si accingeva al campionato e dopo un discorso con tutti gli atleti, COSO, prese in disparte FINO per dargli un consiglio: «vedi FINO, forse il football non fa per te, ci vogliono delle attitudini particolari, non è da tutti; forse questo sport è troppo complesso; non posso rischiare di metterti in campo, potresti arrecare danni ai tuoi compagni. Segui il mio consiglio prova col nuoto o vai a giocare a calcio, dove ci sono quelli come te».
Il football americano fu costruito appositamente per riaggregare giovani dilaniati dalla guerra di secessione; per sue caratteristiche strategiche, necessita di nove fisicità diverse relativamente al ruolo. L’attitudine al contatto viene formata grazie all’impegno che i coach mettono dedicandosi all’insegnamento dei fondamentali. Non esiste individuo che non possa giocare a football americano. Forse non potrà diventare un campione, un MVP ma certamente sarà utile nel platoon con i suoi talenti. Quando smetterà di giocare, il suo amore per il football, lo porterà ad investire le altre qualità intellettuali in altri ambiti di questo sport: magari diventando il miglior dirigente di tutti i tempi o l’MVP degli addetti stampa.
Non lasciamo che le nostre cattive esperienze ci inaspriscano; manteniamo il ricordo di quei tristi sentimenti e degli stati d’animo, traendone un messaggio positivo, senza nasconderci dietro alibi pretestuosi finalizzati alla rivalsa ed al riscatto personale. Chi giunge oggi, non ha colpa delle vessazioni subite un tempo. Meglio riflettere.
PAS
Foto di Dario Fumagalli