Lo Specchio distorto

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“If you think you are a great coach, it is very likely that you are not.”
(Se pensi di essere un grande coach, è molto probabile che tu non lo sia)

13 anni fa il numero uno al mondo di tennis venne sconfitto nei quarti del torneo di Miami da un diciasettenne spagnolo che non ne voleva sapere di inchinarsi alla classe di Re Roger. La sicurezza nei propri mezzi di Federer da quel giorno non sarà più la stessa. Un anno dopo i due si ritrovarono in finale nello stesso torneo e Federer dovette rimontare da due set sotto per riuscire a vincere il 18° titolo della sua carriera a 24 anni. Un anno era passato, Federer era il numero uno incontrastato da 15 mesi mentre Nadal era solo il numero 31, eppure…

Eppure nonostante la sua classe immensa, Re Roger non riusciva a battere Nadal. Il suo stile di gioco non era altrettanto efficace contro il gioco di Nadal.

13 anni dopo e ad una età impensabile, Federer è tornato a battere Nadal in una finale, di uno slam. Come? Cambiando modo di giocare. 13 anni dopo.

Tante cose sono successe in questi 13 anni, ma probabilmente una più di tutte ha portato il Re di nuovo sul trono: un nuovo coach.

Parliamoci chiaro, cosa si può insegnare a Federer? Cosa deve imparare uno che ha vinto 90 titoli ATP e guadagnato oltre 100 milioni di dollari? Beh, ad esempio come sopravvivere a 35 anni su un campo da tennis. Come riconsiderare se stesso e studiare le strategie migliori per affrontare gli avversari avendo un fisico non più in grado di reggere per 4-5 ore sul campo. Come, dopo anni di dominio, non essere più il favorito.

L’autoconsiderazione, ovvero la stima che abbiamo di noi stessi e delle nostre capacità, può diventare un’arma a doppio taglio negli sport se non c’è qualcuno che ci aiuta a vederla in prospettiva. Quando sei Roger Federer e batti chiunque grazie alla tua capacità tecniche completissime, l’arrivo di un ragazzino che te le suona di santa ragione crea una crepa enorme nel tuo Io. Senza una guida giusta, la reazione può facilmente essere di negazione. Possiamo pensare che sia stata una giornata storta per noi e fortunata per l’altro, possiamo dare la colpa all’arbitro, alle palle, alle condizioni meteo, etc etc… Di sicuro non possiamo accettare che l’altro sia semplicemente più forte di noi perchè questo significherebbe rimettere in discussione tutto ciò che si è, o che si crede di essere.

Non a caso sono ormai diversi anni che la figura dello psicologo sportivo è entrata pressochè in tutti gli sport professionistici. La terapia aiuta ad accettare se stessi, coi propri limiti, e gli altri. Una volta fatto questo è possibile individuare i propri punti di forza, quelli deboli da migliorare ed elaborare una strategia per affrontare qualunque avversario. Nei tempi recenti chi non ha voglia o tempo di affidarsi ad uno psicologo sportivo, spesso si rivolge ai Mental Coach. Questa categoria professionistica personalmente mi inquietà un po’, perchè molto spesso più che portare le persone a migliorare le loro carenze le spinge ad autoconvincersi di essere in grado di fare qualunque cosa solo volendolo veramente. Cosa che può funzionare nel mondo del lavoro o del sociale, ma non certo nel mondo dello sport (non basta la “convinzione di potercela fare” per schiacciare a canestro o per correre i 100 metri in meno di 10”…).

Purtroppo costoro spesso contribuiscono ad ingrossare le fila di quel gruppo di persone convinte di non aver bisogno né di migliorare né di avere dei limiti.

Un bravo coach deve essere in grado di riconoscere queste attitudini e porvi rimedio. Non è facile e porvi rimedio può anche significare consigliare di parlare con qualche professionista perchè un’eccessiva autostima o sicurezza in se stessi non può che essere distruttiva.

La storia dello sport è piena di esempi di giovani campioni che si sono “bruciati” perchè convinti di essere i migliori e che nessuno potesse batterli. Salvo poi trovare qualcuno più bravo che ti batte e ti fa sprofondare in una crisi non solo tecnica, ma anche esistenziale. Una serie eclatante di vittorie può facilmente portare a pensare di essere invincibili. Le argomentazioni di cui sopra dovrebbero farci riflettere se siamo noi davvero forti o se sono gli avversari incontrati finora a non essere molto forti, ma per un ragazzo di vent’anni questo non è mai importante. Dovrebbe esserlo per un coach però.

Il coach deve capire se la partita che ha vinto per 60-0 è merito dello strapotere della sua difesa e del suo attacco o se è prevalentemente dovuto all’inconsistenza degli avversari. Il coach deve essere la persona che rimette ogni cosa nella giusta prospettiva. Il coach è quello che da il giusto peso anche a un 7-6.

Negli sport di squadra il meccanismo dell’autoconsiderazione è ancora più complesso perchè vi sono numerosi individui di cui bisogna tenere conto. Per quanto riguarda il football americano poi, la cosa è MOLTO più complessa. Come coach innanzitutto dobbiamo convincere delle persone a sacrificare il proprio corpo in contatti (collisioni) molto forti, cosa che per natura la mente umana rifiuta. La nostra credibilità come coach deve essere totale se vogliamo che quello che chiediamo venga eseguito. Dobbiamo quindi essere tecnicamente preparati e aggiornati e dobbiamo essere in grado di comunicare ai giocatori le giuste informazioni.

Ma cosa succede se le persone convinte di non aver bisogno né di migliorare né di avere dei limiti sono proprio i coach?

Cosa succede se un coach non capisce che le partite che vince non sono tanto merito suo, ma molto demerito degli avversari?

Cosa succede quando un coach non ritiene di dover adeguare i suoi schemi ai giocatori che ha, ma pretende che siano i giocatori ad adeguarsi ai suoi schemi?

Chiunque abbia più di 30 anni conosce la storia di Arrigo Sacchi, uno dei più grandi innovatori del calcio moderno, ma nonostante tutto quando si presentò dal Presidente della sua squadra mettendolo davanti alla scelta “O Van Basten o io” Berlusconi non ci pensò su più di un secondo e si tenne l’airone olandese. Nel football amricano, Chip Kelly era considerato un genio negli anni ad Oregon, ma in NFL ha collezionato disastri, proprio perchè per lui il sistema era più importante delle persone che lo eseguivano.

Un coach dovrebbe sempre essere conscio del fatto che non è lui a vincere la partite, ma i giocatori. Non dovrebbe mai considerare se stesso o il suo sistema più importante dei suoi giocatori, perchè in campo ci vanno loro e non esiste coach vincente senza una squadra.

Troppi coach antepongono il loro successo personale a quello dei loro giocatori e della loro squadra, e la cosa è già ridicola a dirla visto che la maggior parte di noi non viene nemmeno pagata. Quante volte ho sentito coach vantarsi del numero di finali vinte, di scudetti conquistati… La più bella vittoria come coach è quando il coach avversario ti rende la vita durissima ma tu riesci lo stesso a trovare una contromossa. La più bella vittoria come coach è quando un giocatore che alleni fa un bel passaggio, una bella ricezione, un bel blocco, un bel tackle o un bel intercetto.

Troppi coach si svegliano la mattina e nello specchio del bagno vedono un’immagine di loro stessi distorta, come in certe palestre che cercano di farti sembrare più magro. Nella loro illusione probabilmente indossano un cappellino di Alabama o una felpa senza maniche dei Patriots, ma è un’immagine che nella maggior parte dei casi non riescono a proiettare agli altri e le poche volte che ci riescono creano più danno che altro nei giocatori. Per fortuna è un’illusione che svanisce presto. Di solito alla prima sconfitta.

Queste persone non si rendono conto che i primi ad essere ingannati sono loro.

Quando un coach vede se stesso in questo modo è fondamentalmente un egoista. Anteporrá sempre il proprio successo a quello della squadra (Se si vince è merito suo, se si perde è a causa di qualcun’altro) e difficilmente riconoscerà il valore dei singoli se non per vantarsi “questo l’ho creato io!”.

In Italia, si sa, siamo 50 milioni di allenatori. Quando si tratta di football poi, siamo tutti fenomenali “play caller” (quelli che “chiamano lo schema”). La differenza tra dire “gioca una slant” (o “adesso giocano una slant” per la difesa) dalla tribuna o dal divano di casa rispetto a chi chiama lo schema in sideline è che il coach in sideline sa cosa i suoi giocatori in campo devono essere in grado di fare per “giocare una slant” (o per difenderla). Chi sta sul divano, molto spesso no.

Il “couch play caller” è quello che da per scontato che ogni ragazzo con indosso casco e paraspalle conosca ogni singola tecnica del football, non la sa insegnare e non vuole nemmeno perdere tempo a farlo.

Il “coach play caller” è quello che ha insegnato le tecniche ai suoi ragazzi e prepara e chiama schemi che includono quelle tecniche, perché sa che verranno eseguite come si deve.

Cambia solo una vocale, ma fa una grande differenza.

Un buon coach è quello che riesce a valorizzare al massimo il potenziale dei giocatori a sua disposizione, sia giovani che veterani. Se lo fa, otterrà inevitabilmente dei risultati. Se non lo fa, se non ne ha voglia, è meglio che non faccia il coach.

Joe Sivox

Per chiunque voglia approfondire, ecco un interessante articolo di Forbes

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